“Questa è per una persona sola…”
Così Massimo Troisi, in “Non ci resta che piangere” (1984), descriveva la Mokina Bialetti, la più piccola caffettiera del mondo. Un oggetto diventato simbolo di solitudine, ma anche di una ritualità perduta.
Oggi quella metafora rischia di diventare realtà: Bialetti, marchio storico del Made in Italy, è passato sotto il controllo di una holding asiatica, segnando la fine simbolica di un’epoca.
Una storia che ci parla di identità non protetta, di errori strategici, e di un marchio che — nonostante la sua iconicità — non è stato registrato come marchio tridimensionale, perdendo così la possibilità di difendere nel tempo la sua forma unica (proprio come ha fatto Coca-Cola con la sua bottiglia).
Ma questo ci parla anche di noi. Tutti noi.
Perché il Made in Italy non è solo un’etichetta, è un patrimonio culturale, relazionale, affettivo. È memoria e innovazione.
E se non lo proteggiamo con scelte giuridiche, narrative e organizzative coerenti, rischiamo di perdere molto più che un prodotto.
Senza identità, ogni sistema — familiare, aziendale, nazionale — si svuota.
Da imprenditore e Coach, psicologo del lavoro e delle organizzazioni e psicoterapeuta sistemico-relazionale, leggo in questa vicenda una lezione profonda:
il marchio, come il Sé, ha bisogno di confini, cura e coerenza.
Altrimenti resta solo la nostalgia. Una Mokina. ‘Un caffè per uno’ dove, per dirla alla mindsetmaps, manca la forza della passione, l’energia della visione e la ricchezza unica ed irripetibile della missione